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Il salto di Gruber

COME LE FARFALLE

Emiliano osservava le rughe profonde del nonno percorrendole neri tratti scabri e sinuosi, considerando quanto il tempo avesse operato su quella pelle, raggrinzendola. Ma pensò pure con orgoglio che gli attacchi impietosi del tempo non avrebbero mai scalfito lo spirito gaio e giovane del nonno.
Il vecchio sembrava dormire. Aveva il volto rilassato e il respiro appena percettibile. Emiliano ipotizzò che se fosse morto sarebbe stato così, in quell'ingannevole stato di sonno. Ma non era morto, e si disprezzò per averlo anche solo pensato. Sfiorò la mano del nonno poggiata come un vecchio arnese sul lenzuolo candido. Poggiò lievemente la sua mano sulla sua rattristandosi, perché sapeva che stava per perderlo. Per sempre.
Il respiro del vecchio si stava facendo più profondo. La gola si mosse, deglutendo e le labbra si schiusero come se fossero serrate da millenni. Sussurrò qualcosa, forse il nome del nipote, mentre le rughe della bocca si mossero abbozzando un sorriso. Il ragazzo si rincuorò, stringendo più forte la mano del nonno.
Due donne stavano ritte dietro di lui, e per un attimo smisero di bisbigliare. Emiliano ascoltava distrattamente quel parlare sommesso delle donne. Quei sussurri ogni tanto si animavano di enfasi, quindi si interrompevano in brevi silenzi. Accettava quel sottofondo sincopato come fosse parte di uno scenario imprescindibile nella rappresentazione di una stanza d'ospedale. Altrettanto scontati gli parvero i rumori provenienti dalla strada, come il rombo sordo del traffico o il calpestio dei zoccoli degli infermieri che passavano lungo il corridoio.
Le donne si raccontavano eventi che già conoscevano, più per rincuorare se stesse che per onorare la fine di quel vecchio, come se le avversità del tempo avessero colpito quell'uomo risparmiando loro, le dispensatrici di vacui commenti e false commiserazioni. Come se il ruolo di spettatrici le dispensasse dalla sorte riservata a tutti i mortali. Una di loro stava dicendo che il pover'uomo aveva un cancro ai polmoni, che il chirurgo che lo aveva operato,  aveva prognosticato pochi mesi vita ai parenti. Ma il vecchio sapeva, commentò l'altra donna tra un sospiro e l'altro, per lo meno aveva intuito. Non sapeva chi fossero quelle donne, poi udì entrare sua madre e sua zia che con loro scambiarono poche frasi che non riusciva a comprendere.
"Si sta svegliando" annunciò una di loro. Poi la madre sentì che proponeva alle altre: "Lasciamoli un attimo soli. Sono stati sempre molto attaccati, nonno e nipote."
Sentì i loro passi, talmente discreti che appena li percepì.
Quando il vecchio aprì gli occhi, trovò quelli del nipote, attenti e curiosi. Tentò di dire qualcosa, ma la raucedine gli strozzò le parole in gola, lasciando uscire solo un suono roco e sofferto.
La mamma di Emiliano rientrò furtivamente sentendo il padre tossire. Si avvicinò al letto. "Come ti senti?" Si informò amorevolmente.
L'uomo si schiarì la voce tentando di assumere un contegno sicuro e disinvolto. "Bene" rassicurò, mentendo. Si sforzava di nascondere più agli altri che a se stesso il doloro lancinante che avvertiva alla ferita dietro, alla schiena.
"Hai sete?" Si informò la figlia. Stava avvicinandosi alla bottiglia d'acqua sul comodino, ma il padre la fermò con un gesto.
"Ora no, grazie."
"Se hai bisogno di qualcosa" disse la donna, "di qualsiasi cosa …"
Il vecchio annuì lentamente col capo, quindi la donna guardò il figlio tornando poi a sorridere mestamente in direzione del padre.
"Vi lascio soli per un po', va bene?"
Il vecchio annuì nuovamente.
"Torno più tardi" rassicurò la figlia uscendo di nuovo.
"Nonno, quando ti faranno uscire?" Volle sapere Emiliano.
Il nonno si impose di sorridere e sospirò con cautela. "Non lo so" ammise con voce grave. Quindi parve riflettere. Dopo un po' aggiunse: "Emiliano, sei appena un ragazzo, ma tanto intelligente che ritengo di poterti dire la verità. Poi è giusto che sia io a dirtela.
"Cosa?" Si allarmò il giovane.
Il nonno chiuse gli occhi e parve rilassarsi adagiandosi sul guanciale. "Non ti devi preoccupare" lo rassicurò con ritrovata calma e giovialità, come se si stesse per addormentare. "Non c'è n'è motivo."
"Io pensavo …" si confuso Emiliano.
"Che morissi" finì di dire il nonno.
"Si" ammise tristemente il giovane.
L'uomo aprì di nuovo gli occhi catturando lo sguardo del nipote. Emiliano incontrò felicemente le iridi azzurre e vive del nonno. "Invece non morirò!" Gli confidò. "Tutti crederanno che sia morto, ma avranno torto. E comunque non mi importa cosa penseranno gli altri, mi interessa che tu conosca la verità. Ricordi cosa ti dissi l'estate scorsa, al mare?"
Emiliano andò con la memoria alla trascorsa villeggiatura. Gli parve di sentire sul viso persino l'aria fresca del mattino carica di umidità e salsedine. Riusciva a sentire addirittura l'odore del mare.
Aveva impresso nella memoria le lunghe passeggiate sulla battigia, dove la sabbia fredda e compatta cedeva sotto il peso dei suoi passi. Lui e il nonno si svegliavano sempre prima degli altri, e scendevano al mare quando il litorale era ancora deserto. Più tardi sarebbero giunti i villeggianti coi loro corpi unti di crema solare, vocianti e sdraiati come lucertole al sole o al riparo, sotto gli ombrelloni. Quel silenzio rotto solo dal debole frusciare del vento e dallo sciabordio delle timide onde che si frangevano a riva, sarebbe stato travolto dalle grida dei bimbi, dai richiami indistinti delle madri apprensive e dalle radio accese, disseminate per chilometri in modo cacofonico tra  la folla.
"Il silenzio è d'oro" gli diceva il nonno. Anche se non capiva, accettava quel commento come una sua stravaganza mentre  era intento a raccogliere gusci di conchiglie e ciottoli levigati dall'acqua.
Ricordava un mattino in particolare, quando notò le impronte dei gabbiani sulla sabbia. Rammentò che chiese al nonno cosa andassero a fare i gabbiani, di notte, in riva al mare.
"Vengono a mangiare i granchi che si nascondono sotto la sabbia bagnata" gli spiegò il nonno.
Emiliano si corrucciò. "Allora perché i granchi non restano nascosti?" Protestò.
"Perché sono costretti ad uscire per mangiare."
"Mah!"  Dubitò il ragazzo.
"Questa è la legge della natura, Emiliano."
Ma l'interesse per i granchi cessò di colpa quando vide una grossa pietra porosa. "Guarda!" Esclamò raccogliendola. "Sembra un cuore!"
Il vecchio la prese e la studiò come farebbe un archeologo con una selce. "Hai ragione" convenne. "Sembra proprio un cuore. E' una pietra molto bella che devi conservare."
"Certo. Appena torniamo a casa, la metto nella scatola insieme alle altre."
Ripresero a camminare, anche se Emiliano aveva voglia di correre. Quando era con il nonno, si assoggettava volentieri alla sua andatura come fosse calamitato alla sua granitica presenza. Si sentiva come un pesciolino nel vasto mare protetto dallo scoglio.
"Nonno, un bambino quando nasce è triste o contento?" Chiese.
Il nonno si fermò, perplesso ad osservare il nipote. "E' una domanda intelligente che merita  una risposta adeguata. Vieni" lo invitò verso le sdraio ancora chiuse e allineate come un esercito inanimato, "andiamo a sederci.  Stando seduto rifletto meglio" Spiegò. "Sai" iniziò guardando verso l'orizzonte marino, "quando un bambino è nella pancia della mamma non è in grado di pensare in modo intelligente, come me e te. Per il feto …"
"Feto?"
"E' così che si chiama il bambino prima di nascere. Il feto sta abbastanza bene perché non conosce la fame o il freddo e tutto il suo tempo lo dedica ad ascoltare i suoni che giungono dall'esterno, nonché i battiti del cuore della mamma e la sua voce."
"E capisce quello che dice la mamma?"
"No, ma non ha importanza. Per lui quel suono è di per sé confortante, come il rumore del respiro o il pulsare del sangue. Il corpo della mamma per lui è tutto, casa, cielo, terra, universo …"
"Però non sa di essere nella pancia della mamma!"
"No, non lo sa" ammise il vecchio. "Però avverte la sua presenza e intuisce di far parte di in corpo indefinito, addirittura immenso, perché per lui, che vive chiuso là dentro, il corpo della mamma non ha confini."
Emiliano tentò di capire, ma ci rinunciò subito. "E quando nasce" volle sapere, "come sarà la vita del fete?"
Il vecchio guardò il nipote come se non lo conoscesse, e quando rispose, sembrò rivolgersi a se stesso. "Per lui sarà un'incognita, come per noi è la morte."
Il ragazzo non comprese e chiese al nonno spiegazioni. Il vecchio si rese conto di aver oltrepassato le capacità cognitive del nipote. Ricorse allora a degli esempi: "Immagina la vita, la nostra normale vita di tutti i giorni, simile a quella del feto chiuso dentro la pancia della mamma. Come il feto non conosciamo cosa c'è fuori della pancia dove abitiamo, però intuiamo una realtà diversa, molto più grande!" Il vecchio notò l'espressione attonita del nipote, ma non si diede per vinto. "Però noi, a differenza del feto" aggiunse, "abbiamo l'intelligenza molto più sviluppata, abbiamo più conoscenza e a tutto diamo un nome. Sai come si chiama la madre della nostra esistenza?" Il nipote negò scuotendo il capo. "Si chiama universo" dichiarò con enfasi il nonno.
"E allora noi, secondo te, dovremo nascere un giorno e trovarci chissà come nell'universo!" Concluse Emiliano.
"Si."
"Ma come?"
Il vecchio sorrise orgoglioso dell'intelligenza del nipote. "Semplicemente morendo."
Il ragazzo lo interrogò con lo sguardo smarrito. "Ma come …" balbettò.
Il vecchio accarezzò la testa del nipote. "Proprio così" confermò, "morendo. Ma non devi rattristarti per questo. Immagina allora di poter parlare con un feto. Anzi, facciamo finta che io sia il feto e che ti confidassi la terribile paura che ho di lasciare la pancia dove vivo e ti dicessi: 'Emiliano, sento che sto per uscire, che sto per lasciare il corpo della mia mamma. Ho paura, non voglio morire!' Tu cosa gli risponderesti?"
"Come?" Si smarrì Emiliano.
"Sono sempre il feto,ricordi?"
"Ah, già. Nascere vuol dire uscire dalla pancia. Tu ora sei dentro la pancia, ma prima o poi dovrai uscire!"
"Ma cos'è la pancia?"
"Uffa!" Sbuffò Emiliano spazientito. "Ma tu non sai proprio nulla!"
Il nonno sorrise divertito. "Beh, cosa pretendi da un feto? Anche l'universo se potesse parlare con noi direbbe la stessa cosa. Allora sai cosa possiamo fare?"
"Cosa?"
Il vecchio si alzò dalla sdraio guardandosi intorno. "Possiamo andare a casa a fare colazione, non hai fame?"
"Ma …" cominciò, sentendosi spiazzato, "E la morte?"
"La morte non esiste. O meglio, abbiamo dato una brutta parola a qualcosa che non conosciamo. Ora andiamo via, che comincia a fare caldo."
Si alzarono e ripresero a camminare. Di tanto in tanto il vecchio scrutava di sottecchi il volto serio e corrucciato del nipote. Emiliano non avrebbe voluto troncare quell'affascinante dialogo. No, non era per niente soddisfatto. Allora si mise a cercare il giusto epilogo. Voleva dimostrare al nonno che aveva capito perfettamente il suo discorso. Quando trovò la soluzione si arrestò di colpo. Il nonno si voltò ad osservarlo. Aveva il volto raggiante.
"Come le farfalle!" Esclamò.
Gli occhi del vecchio si fecero due fessure mentre il suo cuore si riempiva di una felicità inaspettata. Emiliano penso invece che il nonno non avesse capito, e gli spiegò la trasformazione del bruco in farfalla.
Guardandolo ora, nel letto d'ospedale, Emiliano capì che il nonno si riferiva a quel giorno in particolare. "Sicuro, ricordo" lo rassicurò, ti parlai delle farfalle."
Il vecchio tornò a rilassarsi sul guanciale con evidente soddisfazione. "Bravo" sospirò chiudendo gli occhi, "era proprio di questo che ti volevo parlare. Sono un vecchio bruco, stanco e malridotto. Vorrei tanto riposare e rinchiudermi nel mio bozzolo. Sai cosa intendo dire, non è vero?"
Emiliano annuì gravemente. Sapeva che il nonno non avrebbe vissuto a lungo.
"Però questo non deve rattristarti" continuò il vecchio. "io non morirò, ma mi trasformerò, proprio come fanno le farfalle.
Il ragazzo assentì poco persuaso. "Ne sei proprio convinto, nonno?"
"Naturalmente, e mi dispiace che tu non ci creda."
"No, non è questo …" protestò Emiliano.
"Lo so, lo so" acconsentì il nonno. "E' che ti sembra strano,pensavi che fosse solo una favola."
"Beh, si. Qualcosa del genere" ammise il giovane.
Il vecchio sospirò tornando a chiudere gli occhi. "E' comprensibile, ma sono certo che un giorno capirai."

 La Terra vista dallo spazio era un pianeta azzurro, per gli oceani che la ricoprono. Sembrava immobile mentre invece vorticava e viaggiava nello spazio nero e infinito a velocità sostenuta.
Osservava il pianeta con disincantata malinconia, tentando di afferrare remoti ricordi in un passato che non gli apparteneva più. Vedeva quel mondo come una crisalide schiusa e abbandonata, sospesa nel vuoto. E lui era una farfalla che si tratteneva dal prendere il volo. Ma per quanto tempo ancora avrebbe resistito all'irrefrenabile impulso di librarsi nel cosmo?
Quanti secondi può attendere una farfalla prima di stendere le ali?, si chiese ricordando Emiliano. Non poteva andarsene senza prima tentare di salutarlo, pur intuendo quanto potesse essere difficile.
Si decise. E lottando contro il suo istinto di abbandonare quel posto, tornò sulla Terra. Nell'avvicinarsi provava un senso di nausea, perché quel luogo aveva assunto l'aspetto di un feretro dissepolto. Poi vide Emiliano sulla spiaggia che raccoglieva sassi e li gettava  nel mare. Non sapeva cosa fare. Inseguiva le pietre lanciate dal nipote, rimbalzava con loro sulla superficie dell'acqua fino ad accompagnarle sul fondo sabbioso. Cominciò a rincorrere i riflessi del sole saettare sull'e increspature del mare e si gettava ovunque il nipote volgesse lo sguardo.
Il ragazzo si fermò a scrutare l'orizzonte, proprio come avrebbe fatto suo nonno.