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Come le farfalle

IL SOGNO DI BORIS

Conobbi Boris dieci anni fa in circostanze davvero incredibili.  Ero nella mia stanza piuttosto piccola che con un po' d’ironia chiamo "studio", totalmente preso dalla lettura di un racconto di Borges quando notai la porta aprirsi per poi vedere affacciarsi il volto intimorito di Boris. Balzai in piedi, indignato per ciò che reputavo un'intromissione inaudita, oltre che paradossale. In casa, ricordo, non c'era nessuno e la porta d'ingresso era sempre rigorosamente chiusa. D'istinto pensai a un ladro, ma l'espressione dell'intruso era sbalordita quanto la mia. "Ehilà!'" riuscii a esclamare. L'intruso si ritirò dall'uscio ed io mi decisi a corrergli dietro. Spalancai la porta ma non vidi nessuno. Controllai anche nelle altre stanze, ma nell'appartamento ristagnava il consueto silenzio. Non udii passi di fuga, né alcun rumore, né tanto meno quello del portone di casa che l'intruso avrebbe dovuto aprire per darsi alla fuga.
Ero in piedi, nel mezzo del corridoio, da solo e cominciai a preoccuparmi della mia salute mentale. Avevo visto perfettamente il volto di quell'uomo, e avrei potuto addirittura ritrarlo tanto mi era rimasto impresso nella memoria. "Non sono pazzo", pensai. In ogni caso decisi di non raccontare a nessuno quell'assurda esperienza.
Trascorsero due anni, prima che comparisse di nuovo.  Quella volta mi imposi una calma che non sospettavo di possedere. Ero sempre nel mio "studiolo", ma avevo il computer acceso e stavo controllando la posta quando il volto di Boris si affacciò alla porta come la prima volta, con lo sguardo intimorito e vacuo. "Non aver paura" gli dissi col tono più calmo che avevo. "Oltretutto, sei a casa mia, e dovrei essere io a preoccuparmi." Gli feci cenno con la mano di entrare, indicando la poltroncina in vimini davanti alla mia scrivania. Anche se titubante, avanzò di un passo ed ebbi modo di vedere la sua figura intera. Non era molto alto, ed era magrissimo. I capelli erano neri, corti e arruffati. Indossava un completo nero di due taglie più grandi, una camicia bianca senza cravatta, abbottonata fino al colletto. Dava l'impressione di un contadino vestito a festa. Sembrava più vecchio dei suoi, presumevo, quarantacinque o cinquant'anni. "Siediti", lo invitai.
"Chi sei?" mi chiese disforico, quasi in un sussurro. "Dove mi trovo?"
"Mi chiamo Mauro e sei in casa mia, a Milano."
"Milano?" Si stupì. "Sono lontanissimo da casa mia!" Si guardò intorno, notevolmente confuso.
Riconobbi un accento meridionale nelle parole, forse pugliese. "Come ti chiami?" Gli chiesi.
"Boris" rispose, osservandomi cupamente. "Come faccio a essere qui?"
"Non lo so" ammisi, "speravo fossi tu a spiegarmelo."
L'uomo indugiò con lo sguardo nella mia libreria che occupava due pareti. "Chi sei", volle sapere, "un professore?"
Sorrisi. "No" risposi, "mi piace leggere, ecco tutto."
"Io faccio il contadino a Trani" mi disse con stizza. "Ho venti ettari di terra coltivata a olivi. Ho la masseria, una moglie e tre figli." Mi guardò dritto negli occhi: "Che cazzo ci faccio a casa tua, a Milano?"
"Non lo so" confessai di nuovo. "Forse stiamo sognando... "
"No!" troncò subito Boris. "Sono io quello fuori posto." Rimase un attimo in silenzio, guardandosi le scarpe. "Forse sono morto" concluse.
"A me sembri abbastanza vivo." Replicai.
"Come fai a dirlo? Conosci la differenza tra essere vivi ed essere morti?"
"No" ammisi. "Nessuno può dire di conoscere la morte!"

Qualcuno stava scuotendo la sua spalla e una voce di donna lo stava chiamando con insistenza.
Gli parve di emergere dal fondo di un lago limaccioso e torbido e di riemergere verso una luce sempre più vivida. Anna, la moglie lo stava scuotendo mentre lui ancora osservava stupito l'ampio soffitto a volta che sormontava il suo letto.
"Ma quanto dormi, stamani?" si lamentò la donna. "Se non ti sbrighi, facciamo tardi alla messa!"
L'uomo guardò accigliato la donna che si stava vestendo. Lei si voltò a osservarlo con aria rattristata: "Non dirmi che ti sei sognato ancora quel Mauro di Milano?"